foto del mese: aprile 2019
La mostra “Caravaggio a Napoli“, dal 12 aprile al Museo di Capodimonte, intende approfondire il periodo napoletano del pittore e l’eredità lasciata nella città partenopea. Quella di Caravaggio fu una presenza fondamentale per lo sviluppo della poetica barocca e la diffusione del naturalismo caravaggesco nella pittura del XVII secolo in Europa. Caravaggio visse a Napoli per complessivi 18 mesi tra il 1606 e il 1610. Un soggiorno fondamentale per la sua vita e le sue opere, di sicuro un periodo meno noto di quello trascorso a Roma.
La mostra si propone di mettere a confronto sei opere del Merisi tutte eseguite a Napoli, provenienti dai Musei italiani e internazionali, tra cui prestiti straordinari quali La Flagellazione del Musée des Beaux-Arts di Rouen, assente da oltre trent’anni dal circuito espositivo, e il Salomé con la testa del Battista proveniente dal National Gallery, Londra
Dopo 15 anni dall’ultima esposizione che Capodimonte ha dedicato al maestro lombardo (Caravaggio. L’ultimo tempo 2004) nuove scoperte e recenti dibattiti internazionali saranno presentati in occasione di questa mostra insieme alla ricostruzione di una dettagliata crono-biografia che riorganizzerà le conoscenze letterarie e documentarie (edite e inedite) del periodo.
La Flagellazione di Cristo è un dipinto a olio su tela (286×213 cm) di Caravaggio, realizzato tra il 1607 ed il 1608 e conservato nella sala 78 del Museo nazionale di Capodimonte di Napoli.
Secondo il resoconto di Giovanni Pietro Bellori, scrittore e storico d’arte, questo dipinto fu commissionato per adornare la cappella della famiglia de Franchis nella Chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. La Flagellazione di Cristo è la tela di formato più grande e più monumentale delle sei opere eseguite dal pittore alla fine del suo soggiorno napoletano.
Come per molte altre opere di commissione pubblica realizzate in questo periodo, Caravaggio sceglie di adottare una soluzione più convenzionale e meno stridente coi canoni della pittura religiosa, rifacendosi al dipinto dello stesso soggetto eseguito da Sebastiano del Piombo nella chiesa di San Pietro in Montorio a Roma. Il dipinto è organizzato intorno alla colonna alla quale è legato Cristo, dove si dispongono due dei torturatori, uno a lato ed uno dietro alla colonna, i cui gesti precisi e lenti ci proiettano nello sfondo del quadro e verso il primo piano, dove si trova il terzo degli aguzzini, chino. Il corpo luminoso e robusto di Cristo sembra accennare a un movimento danzante che riecheggia la pittura manierista e che contrasta con i movimenti strozzati e secchi nella concentrazione dei suoi aguzzini. È una rappresentazione non convenzionale della realtà umana e naturale, un modo nuovo di fare pittura, bloccando sulla tela, tra contrasti netti e laceranti di luci e ombre, frammenti o, meglio brandelli, di corpi in movimento colti nel momento di più alta e sconvolgente tensione non solo fisica, quanto soprattutto psichica, emotiva, sentimentale. I corpi vengono fuori dall’ombra e i tratti fisici vengono definiti dalla luce quasi accecante sottolineando con grande drammaticità l’evento che il dipinto racconta.
La lavorazione fu abbastanza travagliata: segni di pentimenti e ridipinture sono evidenti nella parte inferiore, soprattutto all’altezza del perizoma del torturatore di destra, ove le radiografie hanno rivelato una testa d’uomo (probabilmente il committente) cancellata. È certo che qui il pittore abbia obbedito a precise ragioni della committenza: si confrontino gli aguzzini crudeli di quest’opera con quelli della Crocefissione di San Pietro a Roma, raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso.